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Una questione di pathos: intervista a Manuel Agnelli.
Poco prima della presentazione di Folfiri o Folfox alla Feltrinelli di Piazza dei Martiri a Napoli, abbiamo incontrato Manuel Agnelli, leader degli Afterhours. Lo scambio è stato, come sempre, molto intenso. Da Wallace alla sincerità, dal romanticismo alle battute, dal rock alla commozione. E intorno uno strano silenzio, come a rendere sacre certe parole. Parole che vanno buttate fuori, perchè la verità verso noi stessi è l’atto d’amore più grande che possiamo. Chi vuol intendere, si lasci andare. Chi vuol restare in superficie non capirà mai “com’è l’acqua” (foto di Alessio Cuccaro).

Una bella intervista al nostro Manuel dal per il sito www.losthighways.it




Questo disco tocca i temi di morte e di rinascita. Racconta la tua esperienza personale legata alla morte di tuo padre. Tutto ciò che ruota intorno a Folfiri o Folfox ha un taglio molto intimo, profondamente umano. Vorremmo cominciare dalla presentazione ufficiale che ha il tono di una lettera indirizzata a chi incrocia la sua strada con la tua, ascoltando gli Afterhours. Non ci si abitua all’assenza, e la Musica può essere un modo per reagire, anche al panico… che impari a conoscere, anche se non puoi dominarlo…

Il panico non puoi dominarlo, è vero. Impari a conoscerlo, certo. Il disco è stato il mio modo per buttar fuori tutte le tossine. Qualcuno può non averlo capito e magari mi ha criticato, e lo capisco. Però era un mio bisogno. Poi piano piano sono riuscito ad essere meno emozionato proprio perché voglio liberarmi. Folfiri o Folfox è catartico e in questo senso, per me stesso prima di tutto, sta funzionando. Tutto quello che sta succedendo è un po’ un effetto domino, tutto ciò che riguarda la mia vita adesso ne è conseguenza.

Tutto quello che hai fatto nella tua carriera ha sempre avuto un alto senso umano, ma oggi più che mai. È incontestabile per quanto sia palpabile. Fin dal primo ascolto di Folfiri o Folfox si viene così travolti dalla sua umanità da immedesimarsi. Anche se non hai vissuto quel tipo di esperienza direttamente… perché quel tema e i legami che chiama in causa ci riguardano tutti, proprio perché così semplicemente umano. Ed è per questo che abbiamo subito pensato al Wallace di Questa è l’acqua, dove emerge un umanesimo post moderno… che crediamo molto vicino a te…

È da un po’ che sono convinto di questo, e pensare che c’è gente che mi dà del cinico… è tutto talmente relativo. Forse anche perché sono in netta contrapposizione a tutta la schiera dei cantautori, che, lo dico apertamente, non mi piacciono. È la prima volta che mi esprimo in maniera così netta, rispetto sempre tutti ma quel modo di raccontare le cose a me non piace, soprattutto per l’interpretazione di un certo tipo di romanticismo che diventa così annacquato. Oggi abbiamo un po’ la versione edulcorata dei cantautori che già negli anni 70 avevano quella tendenza. Prendete De Gregori, ha fatto dei capolavori, è un gran talento ma manca qualcosa. Alla fine è quello che a me non piace dell’essere italiano, non mi piace la musica che non riesce ad avere potere. Nel Nord Europa è diverso, e non parlo solo dell’Inghilterra, lì c’è un assolutismo emotivo che svela noi come cinici e calcolatori.

Torniamo a Wallace. Aggiungiamo anche The end of the tour, il film nato dal libro intervista di Lipsky. Il giornalista del Rolling Stone seguì Wallace durante il tour promozionale di Infinite Jest. Il senso del film è la conquista di se stessi… e voglio chiamare in causa una citazione dal discorso Questa è l’acqua: “La verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte”. La verità che ci fa rinascere di cui parli tu, in modo intimo e senza fronzoli, così come faceva Wallace. Ecco perché diciamo che a Wallace Folfiri o Folfox sarebbe piaciuto. Ed ecco perché la verità di Folfiri o Folfox ci riguarda tutti. Ed ecco perché raccontarsi senza pelle ha conquistato tutti… Critica e pubblico.

Il film non l’ho visto, ma ho letto Questa è l’acqua dopo aver quasi finito i testi del disco. Avevo già letto altro, in precedenza. In particolare Solomon Silverfish, il primo racconto, mi ha ricordato gli scrittori russi, quel tipo di potenza. Non è splatter mostrare la verità anche cruda della realtà, bensì è vero romanticismo. A livello emotivo Wallace è estremo, non per i dettagli raccontati. Mi ci sono ritrovato tantissimo, perché avete ragione voi, la verità aiuta a rinascere: quando c’è bisogno di comunicare una cosa del genere se lo fai in maniera molto profonda, per quanto dolorosissimo possa essere, è l’unico modo per sublimare il dolore e liberarsi dalle tossine. E per questo funziona, lo dico egoisticamente. La questione del rispetto del dolore è qualcosa che io voglio eliminare. Non è un bene vivere il dolore come qualcosa di nobile, grande e segreto solo perché ci tiene legati alle persone che abbiamo perso, così sembra che non vogliamo risolvere la situazione perché crediamo di poter così tenere saldo quel legame, ma in realtà questa è una gabbia. Io credo che chi abbiamo amato non vorrebbe saperci imprigionati in questa gabbia. Ecco perché ho fatto di tutto per sublimare il dolore, non dico per sconfiggerlo, ma per liberarmene. Non tratto il dolore come una questione nobile da preservare, me ne voglio liberare. Leggere quel racconto mi ha confermato anche quanto raccontare il dolore possa essere imbarazzante, essendo una questione così personale. C’è stato chi mi ha detto di essersi sentito imbarazzato dopo l’ascolto di Grande, e va bene. Quello che ho usato, per me, è l’unico modo… altrimenti non funziona, non puoi usare le metafore, non puoi stare a farne una costruzione poetica, perchè cadi nel complicato, diventa una cosa a metà, filtrata da ciò che è accettabile…

È come nascondersi…

È come non piangere. È proprio dalle reazioni delle persone che capisci quanto questo disco sia arrivato nel suo vero senso. Avevo un po’ paura perché tanta gente ha vissuto questo tipo di perdita ed è un’esperienza così privata che non puoi parlare di quello che è successo agli altri, per questo ho voluto personalizzare così tanto il mio racconto. Non puoi parlare della storia di tutti perché ciascuno ha la propria storia. Puoi dire di te, semplicemente e così liberarti. Però un po’ di timore l’avevo. Temevo la reazione di chi aveva vissuto una situazione simile. Avrebbero potuto pensare che io non avessi il diritto di parlare di una cosa del genere in maniera così personale. Però non è stato così. Ed è la cosa più bella che potesse accadere. Alla fine non incontro persone che mi raccontano la loro storia, ma che mi dicono solo che si ritrovano…


Immedesimazione. Incontro a livello emotivo, è bellissimo. Quando accade è perché hai fatto arte…

Eh…

Eh, sì. Si chiama così! Lo pensiamo e non ritrattiamo!
Parliamo della varietà sonora di questo disco. Una varietà che va oltre i confini di genere e si sposa alla perfezione con i testi, raggiungendo un’alchimia che molto deve anche ai nuovi innesti nella band…

Comincio da Fabio Rondanini. Mi ha sorpreso la sua partecipazione, avevo dei dubbi poiché non è tanto abituato ad un ruolo creativo in una band. Conoscevo esattamente la sua bravura ma non avevo idea di quanto si sarebbe adattato agli After e di quanto avrebbe potuto portare di nuovo adattandosi. Puoi essere bravissimo a rifare le cose ma poi non porti nulla di nuovo, di tuo. Invece lui è un musicista straordinario e ne ha dato prova. Dopo che io e Rodrigo abbiamo iniziato ad imbastire il disco, lui è stato il terzo elemento fondamentale poiché ha dato una svolta a tutto, permettendoci di appoggiarci ad una libertà ritmica che non abbiamo mai avuto prima, e quindi ad una creatività e ad una varietà di soluzioni davvero nuove. La libertà ti permette naturalezza e divertimento…

Questo tipo di libertà ha avuto un’influenza splendida anche sulla tua voce. Hai sempre osato e “giocato” in tutte le direzioni, ma in questo disco sembri essere molto più consapevole della tua voce…

Sì, è vero, però c’è anche molta più istintualità. Forse un po’ forzata, poiché i testi li ho scritti in corso d’opera e verso la fine… quindi per fortuna non ho avuto moltissimo tempo per cantare. Questo tipo di testi del resto andavano cantati così, senza troppi filtri o accorgimenti.

Colpisce proprio l’interpretazione, quindi il pathos…

È venuto fuori perché abbiamo, come dicevo prima, dei musicisti validissimi come Stefano e Fabio. Poi devo dirvi che abbiamo anche lavorato separatamente tra di noi, spedendoci poi i files, ciascuno nella libertà più totale. Paradossalmente quando hai tutto il tempo e tutta la libertà che vuoi, ci metti pochissimo perché psicologicamente sei leggero, senza le pressioni che puoi avere in uno studio.

È molto forte anche il contributo di Rodrigo D’Erasmo…

Sì, Rodrigo ha dato un grande contributo nella parte di scrittura del disco. Ha portato tantissime idee. Molti riff da cui tutto è partito sono di Rodrigo. Qualcuno può aver pensato siano miei o di Xabier, ma in realtà sono di Rodrigo. Lui è il mio alter ego in questo disco. Folfiri o Folfox è un disco che abbiamo fatto soprattutto noi due, poi è ovvio che tutti i membri degli After siano stati e sono fondamentali, perché ognuno ha un ruolo molto preciso e importante. Il disco risulta così personale perché è forte il contributo di tutti, ma la scrittura delle musiche per buona parte è mia e sua. A livello di arrangiamento ha proposto soluzioni egregie, è stato bravissimo anche a livello logistico, quindi nell’organizzazione del lavoro. Non ho mai avuto una persona così al mio fianco. A livello di produzione, intendo la visione globale sul disco, io e Tommaso Colliva abbiamo avuto un ruolo primario.


Grande e L’odore della giacca di mio padre sono brani tuoi. Scriverli, cantarli sarà stato come un viaggio dentro te stesso, ma a posteriori come li percepisci?

Sono i brani che raccontano il disco, sono quelli più chiari a livello di tematica e danno una direzione al tutto, e anche la loro posizione in tracklist non è casuale. Grande è più Afterhours, più classico, mentre l’altro ha dei contenuti diversi, mi è stato detto che sembra vicino a Bill Evans, che io ho ascoltato moltissimo ma non è un riferimento. Il pianoforte lo suono per accompagnarmi, anche se in realtà è il mio strumento, quello che suono bene. In teoria potrebbe essere un’apertura verso il futuro, perché mi piacerebbe riprendere questa strada.

Quindi…potrebbe esserci un progetto solista?

Vediamo… ci sto pensando, e non solo io. Tornando ai due brani di cui stavamo parlando, sono talmente personali che probabilmente li suoneremo e li canterò finchè avrà senso. Non credo che diventeranno dei classici del nostro repertorio perché sono troppo personali. Prima o poi smetterò di farli come ho fatto con altri pezzi che non ho sentito più di fare perché le situazioni a cui sono legati si sono risolte. Poi ovvio che il pubblico li chieda, e magari ogni tanto li faccio, penso ad Oceano di gomma, un brano che però preferisco cantare a casa piuttosto che in concerto. La stessa cosa sarà per questi due pezzi, prima o poi smetterò di farli.


Diversamente dagli altri dischi, l’ultimo pezzo volutamente sembra chiudere il cerchio. Folfiri o Folfox ha una costruzione ad anello, pensiamo ai versi “il dolore non era la destinazione” di Grande, chiave di volta per comprendere tutto il concept, e “devi tornare a vivere” di Se io fossi il giudice. Il messaggio alla fine è positivo e veicolato da un’atmosfera ariosa…

Avete ragione. Il pezzo è lì a concludere. Quando è nato abbiamo subito deciso che avrebbe chiuso il disco, così come quando è nato Grande abbiamo deciso che l’avrebbe aperto. L’ultimo brano vuole proprio aprire ad una possibilità. Il disco è lì che deve arrivare, non è stato fatto per piangersi addosso, avremmo fatto un disco diverso con brani che avrebbero raccontato tutta una serie di dettagli, mi viene in mente The Wall. Ma io non volevo quello, io volevo liberarmi e non farmi opprimere ancora di più. Se io fossi il giudice non racconta un proposito, ma quello in cui fermamente credo.
Comunque tutti i brani hanno una collocazione precisa, hanno un senso preciso all’interno del tutto. Pensate a San Miguel, uno dei brani meno compresi del disco perché ostico, però racconta la superstizione ossessiva ed ha un senso fondamentale.


Abbiamo un po’ ragionato sul tipo di iconografia e di tradizione che c’è dietro quel brano… abbiamo varie supposizioni, ma lasciamo che sia tu a svelarci cosa c’è dietro…

Tutte le supposizioni che volete ci stanno, però ora vi racconto la storia che c’è dietro. Ho visto un documentario sui piloti che portano la cocaina dal Perù alla Bolivia perché venga raffinata. Questi piloti recitano una preghiera a San Michele. San Michele è il protettore degli aviatori, ecco perché San Michele è sopra, sotto, dietro, davanti… stanno volando… “ovunque io vada ho il tuo amore che mi protegge”. Inoltre, la mia compagna mi ha fatto notare che forse inconsciamente potrei anche aver scritto una canzone per Miguel, un mio amico che si è tolto la vita moltissimi anni fa. Lui mi regalò un amuleto che tengo sul comodino, era uno scultore e lo realizzò con materiale rinvenuto nella spazzatura. Comunque il mio intento era rappresentare i vari lati della superstizione, quella nera ovvero della sfiga (dal gatto nero alle parole tabù come cancro), la più volgare e violenta, quella che io disprezzo e quella bianca che rifiuta la razionalità come unica possibilità e cerca altre strade, quella che più mi interessa. In San Miguel racconto quella ossessiva, ma in altri punti del disco tocco il tema della spiritualità positiva. Io sono ateo però credo nell’energia. Perché il passaggio dell’energia io l’ho sentito proprio fisicamente. Il disco ha dei cardini e San Miguel è tra questi. Molta gente analizza la musica con le categorie canzone/non canzone. Che vuol dire “questa non è una canzone”?. È musica, non conta solo la sequenza strofa/ritornello/strofa/ritornello/assolo/ritornello! Una canzone può svilupparsi diversamente, pensate ad Oggi… Anche in questo emerge quella libertà di cui abbiamo parlato prima e che è quella che abbiamo portato nei teatri, mi riferisco ai reading e soprattutto alle situazioni emotive che abbiamo cercato di porre in primo piano.


Ti avremmo proprio chiesto di Oggi. È un brano splendido con una struttura anomala funzionale alla tensione emotiva…

È da tanto che ricerchiamo altro dalla forma canzone, poi ne scriviamo anche di canzoni… Folfiri o Folfox ne è pieno. Quello che è cambiato rispetto al passato e a Padania, un disco più ostile dell’ultimo perchè i concetti erano più sfumati e le atmosfere erano più fredde, è che questo disco arriva in maniera più diretta, infatti sta comunicando tantissimo. Non è solo una questione di numeri, i commenti della gente e le recensioni sono stati tantissimi Avrò letto circa sessanta recensioni in questi giorni, certo… poi ce n’è anche qualcuna brutta ma non argomentata!. Quelle positive colgono tutte nel segno ed è molto emozionante per noi vedere quanto questo disco sia stimolante per chi l’ascolta. È bellissimo… vuol dire che sei riuscito a comunicare. Quando uno scrive le cose che tu ti aspetteresti è una meraviglia, un conforto reciproco. Ce ne siamo accorti subito, già quando l’abbiamo fatto ascoltare ai nostri amici. Non è solo una questione di scrittura, di ricerca sonora… è proprio lo spirito del disco che ha una marcia in più…

È una questione di pathos…

È una questione di pathos, sì.